Fisco all’irlandese per le imprese UE che decidono di investire in Italia

Metti un’impresa europea che decide di sbarcare in Italia. La fase di start up porta già i primi frutti e a fine 2010 viene realizzato un utile ante imposte di 7 milioni di euro. Alla resa dei conti con il fisco dovrà pagare poco più di 2 milioni di euro, calcolati secondo la normativa italiana sul reddito delle società.
Cosa succederebbe se al posto delle regole della Penisola questa impresa potesse scegliere la normativa fiscale del proprio paese di origine o quella di un altro dell’Unione europea? Un’ipotesi che presto diventerà realtà. A prevederla è l’articolo 41 della manovra 2011 che ha appena incassato il via libera del Senato e sarà ora all’esame della Camera. Una prima simulazione effettuata da KStudio Associato (Kpmg) per il Sole 24 Ore mostra i differenti scenari ritagliati su misura secondo l’identikit della società in questione. Un confronto tra il modello fiscale italiano e quelli di Francia, Gran Bretagna, Germania e Irlanda.
Dublino si conferma la realtà più attraente, grazie soprattutto all’imposta sugli utili che pesa per il 12,5% appena. Qui con le stesse condizioni ai blocchi di partenza e al traguardo di fine esercizio la società dovrebbe staccare un assegno ben più leggero e pari a circa 870mila euro. Non ha il fascino dell’Irlanda, ma anche la tassazione tedesca si rivela conveniente: calcolando l’imposta sui redditi e il contributo di solidarietà il conto da pagare ammonta a poco più di un milione di euro. A questo potrebbe essere aggiunto (ma ancora non è chiaro) l’importo dovuto per la trade tax municipale, che pesa tra il 14 e il 17% a seconda della sede della casa madre. Con il modello britannico il conto da pagare sarebbe lo stesso di quello calcolato secondo le regole italiane, mentre con la normativa francese l’impresa pagherebbe quasi 400mila euro in più.
Nella realtà il ventaglio di scelte sarà ancora più ampio e si estenderà a tuti e 27 Paesi della Ue. L’obiettivo dichiarato del governo è un regime fiscale di «attrazione europea» che potrà essere esteso anche ai dipendenti e ai collaboratori dell’impresa estera attiva in Italia. Gli emendamenti approvati dal Senato hanno però circoscritto il raggio di applicazione: possono cogliere questa opportunità solo le imprese che hanno avviato un’attività sul territorio italiano dopo il 31 maggio. L’opzione sarà valida solo per tre anni e verrà applicata solo alla legislazione statale sulle imprese.
I dettagli operativi verranno chiariti con un decreto del Ministero dell’Economia e dopo il via libera della Commissione Ue. Già oggi, però, i consulenti fiscali cercano di interpretare la fredda dicitura di poche righe che rivoluziona la normativa fiscale europea. Molta curiosità e tanti dubbi. «La nuova disciplina – sottolinea Govanni Barbara, avvocato e partner di KStudio Associato (Kpmg) che insieme ad Anna Maria Faienza e Laura Colombini ha effettuato la simulazione – rappresenta l’antitesi dell’armonizzazione, perché le imprese di derivazione estera godrebbero di vantaggi competitivi rispetto alle altre. Lo stesso meccanismo opzionale a tre anni se da un lato attenua l’effetto negativo sulla competitività, dall’altro può dar luogo a non pochi problemi legati alla coesistenza di regole differenti per determinare il reddito di impresa, perché gli effetti reddituali e patrimoniali si trascinano anche negli anni successivi».
Sulla stessa lunghezza d’onda sono le reazioni a caldo degli esperti fiscali delle Camere di Commercio, che sondano gli umori dei potenziali investitori sul suolo italiano. «Si tratta certamente di un’iniziativa interessante e unica – dice Heinz-Georg Krolovitsch, responsabile del network "Norme e tributi" della Camera di commercio italo-germanica. Anche se «oltre al vantaggio psicologico di sentirsi un po’ a casa con il fisco ci sono numerosi punti interrogativi sugli effettivi vantaggi reali. La normativa fiscale di ciascun paese di per sé è già abbastanza complessa e potrebbero sorgere problemi anche dal punto di vista linguistico per l’interpretazione delle norme di un altro paese».
Resta alla finestra in attesa di nuovi sviluppi Colin Jamieson, consigliere della Camera di commmercio britannica per l’Italia: «Aspettiamo il decreto attuativo per avere un quadro più preciso. Un dato di fatto è che spesso i nostri clienti si lamentano degli alti costi del fare impresa in Italia».

I NUMERI

8mila
Le imprese a controllo estero
Sono le imprese italiane controllate da multinazionali con sede nei Paesi della Ue secondo le stime elaborate da Marco Mutinelli, docente di gestione aziendale dell’Università di Brescia, a partire dalla banca dati Reprint– Ice del Politecnico di Milano. Occupano circa 700 addetti e nel 2008 hanno fatturato 319 miliardi di euro. Il risultato ante imposte è pari a 7,7 miliardi e le imposte sul reddito di impresa a 5,2 miliardi.
300/400
I nuovi flussi
Sono le imprese italiane controllate da capitale estero di un Paese Ue (con la casa madre in un Paese europeo) che vengono create ogni anno in Italia. La stima è stata realizzata a partire dalla banca dati Reprint (Ice- Politecnico di Milano)
che tiene conto dei settori dell’industria, commercio all’ingrosso, servizi all’impresa, utilities e Ricerca Sviluppo. Non vengono invece considerati i servizi finanziari.
Il calcolo delle imposte con i differenti metodi
Con l’applicazione dell’articolo 41 della manovra 2011 un’impresa residente nella Ue che intraprende una nuova attività economica in Italia può scegliere, in alternativa alla norma tributaria italiana, le regole fiscali in vigore nel proprio stato o quelle di un altro paese dell’Unione. Secondo la simulazione effettuata da KStudio Associato (Kpmg) per il Sole 24 Ore ecco quale sarebbe la tassazione applicabile ad una stessa impresa con la regola italiana, a confronto con la disciplina di altri quattro paesi: Germania, Francia, Irlanda e Gb. Il calcolo è stato effettuato ipotizzando una società di capitali che opera nel settore commerciale, costituita in Italia dopo il 31 maggio 2010 (data di entrata in vigore del dl 78/2010), detenuta al 100% da un società residente in uno Stato della Ue diverso dall’Italia. Si presume che la società realizzi utili già dal primo anno di costituzione e si considera solo l’imposta sui redditi delle società. Gli importi sono espressi in euro.
IMPOSTE SUI REDDITI (Ires)
2.009.219
Gli interessi passivi e gli oneri assimilati sono deducibili. Le svalutazioni dei crediti risultanti in bilancio sono deducibili nel limite dello 0,50% del valore nominale
o di acquisizione dei crediti stessi
IMPOSTE SUI REDDITI
2.360.382
Gli interessi passivi su finanziamenti infragruppo sono deducibili nel limite della percentuale pari al tasso annuale medio effettivo che le banche applicano ai prestiti a tasso variabile con durata minima di 2 anni
IMPOSTE SUI REDDITI
1.096.474
Le società tedesche, oltre all’imposta sui redditi e al contributo di soliderietà, sono soggette anche a un trade tax, con aliquota variabile tra il 14 e il 17% a seconda della municipalità (a Monaco è il 17 per cento)
IMPOSTE SUI REDDITI
867.969
I dividendi da società estere sono tassati al 25%. I compensi per gli amministratori sono deducibili, così come gli interessi passivi lordi se derivano da finanziamenti effettuati per l’attività commerciale
IMPOSTE SUI REDDITI
2.018.800
Non è possibile ammortizzare i beni che costituiscono immobilizzazioni materiali. Si può però dedurre, secondo coefficienti prefissati, il costo sostenuto per l’acquisto di impianti o macchinari

Fonte: Bussi Chiara da Il Sole 24 Ore di lunedì 19 luglio 2010, pagina 2

 

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