Stock option, il repricing salva l’agevolazione

Il Fisco dà l’ok alla scorciatoia del repricing per avere il trattamento di favore nei piani di azionariato in caso di opzione sell to cover. L’integrazione monetaria permette di raggiungere il quantitativo minimo di azioni da detenere nel quinquennio successivo alla loro assegnazione. Parere negativo, invece, all’applicazione del sistema di calcolo basato sul valore delle azioni al momento dell’esercizio delle opzioni (valore puntuale); il criterio da utilizzare è quello riferito al valore normale.
Lo chiarisce l’agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 133/E del 7 aprile, a fronte di un interpello mosso da una società che si avvale di una banca internazionale con il ruolo di broker al momento dell’esercizio delle opzioni da parte dei dipendenti.
L’istante, dopo aver spiegato che i suoi impiegati possono esercitare i loro diritti con le opzioni cashless o sell to cover, pone l’accento sulla seconda modalità, sollevando perplessità sulla possibilità di soddisfare le condizioni stabilite dall’articolo 51, comma 2-bis, del Tuir, con riguardo al numero minimo di azioni da mantenere per poter godere del trattamento fiscale di favore.

Nel dettaglio, l’opzione sell to cover non consente di elaborare una strategia di lungo termine e di garantire, nei cinque anni successivi all’esercizio dell’opzione, un investimento nei titoli non inferiore alla differenza tra il valore delle azioni al momento di assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente. Con la tipologia sell to cover il dipendente, contestualmente all’esercizio delle opzioni, vende un numero di azioni sufficiente a coprire tutti i costi connessi all’intervento di intermediazione del broker.

Il problema si pone perché il numero di azioni vendute dall’intermediario si calcola su un prezzo di vendita che coincide con il valore puntuale di mercato delle azioni al momento dell’esercizio delle opzioni. Questo sistema non consente al dipendente di estrapolare dal conteggio del numero di azioni da mantenere le commissioni del broker e considera rilevante solo il valore puntuale di mercato delle azioni, non quello normale, corrispondente al valore al momento dell’assegnazione delle stesse.
L’interpellante cerca di aggirare l’ostacolo prospettando di poter applicare il sistema di calcolo basato sul valore puntuale di mercato dei titoli, che tiene conto di tutte le variabili contingenti, comprese le commissioni bancarie e la monetizzazione delle frazioni di azioni, accantonando il concetto di valore normale dettato dalla norma.

Il parere dell’Agenzia non collima con l’ipotesi prospettata dal contribuente, ma lascia uno spiraglio. Dopo aver premesso che il tenore letterale della norma è ancorato fermamente al criterio del valore normale delle azioni e non a quello puntuale, i tecnici delle Entrate chiariscono come le modificazioni subentrate nel corso del quinquennio non possono giustificare ai fini fiscali la perdita del requisito del numero minimo di titoli da conservare. Le variabili in gioco, che nell’arco dei cinque anni vanno a minare quel quantum minimo di azioni, non possono essere tenute in considerazione, e, di conseguenza, vanificano la possibilità di godere del trattamento di favore.

Ma le Entrate accordano l’ultima ipotesi ventilata in via subordinata dalla società istante: il ricorso al repricing, rispetto al quale l’Agenzia si era già espressa positivamente (risoluzione 212/2001).
Anche allora, l’ipotesi di un versamento aggiuntivo da parte del dipendente al momento dell’esercizio dell’opzione, così da poter incrementare il costo complessivo delle azioni acquistate, risultava idonea a garantire il rispetto dei paletti normativi per usufruire dell’agevolazione.

Giulia Marconi – Fisco Oggi

 

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