Regime del margine, giusto o errato la prova spetta a chi lo applica

La Commissione tributaria regionale della Toscana, con la sentenza n. 17/13/09 del 2 marzo 2009, ha respinto l’appello di un contribuente e ha accolto invece quello incidentale dell’ufficio, fornendo importanti chiarimenti in materia di corretta applicazione del regime del margine Iva. 
 
L’ufficio di Firenze 2 aveva, infatti, emesso avvisi di accertamento per gli anni d’imposta 2001, 2002 e 2003, con i quali aveva ritenuto illegittima l’applicazione del regime Iva del margine (Dl 41/1995) operata dal contribuente per l’acquisto di autoveicoli usati provenienti dall’estero, che prevede un’imposizione limitata al solo margine di profitto per effetto della seconda destinazione al consumo del bene usato.
Tali avvisi traevano origine da un pvc della Guardia di finanza, su segnalazione dell’autorità fiscale inglese che aveva accertato i rapporti commerciali intercorsi tra la prima cessionaria nazionale (facente parte dello stesso gruppo societario della successiva cessionaria italiana, oggetto, appunto, di accertamento) e la cedente inglese.
 
Il giudizio di primo grado
La sentenza della Ctp di Firenze 27/18/07 del 5 maggio 2007 aveva già respinto il ricorso del contribuente sul merito della vicenda oggetto di accertamento, ma aveva comunque disconosciuto l’applicazione delle corrispondenti sanzioni per obiettiva incertezza nell’applicazione della normativa.
I giudici di primo grado avevano infatti sottolineato come il contribuente avesse richiesto la non applicazione delle sanzioni, fondando tale istanza sulle lacune legislative e interpretative che caratterizzano la materia de qua e insistendo sull’affidamento incolpevole che la società aveva maturato sulla legittimità della propria condotta fiscale in dipendenza della totale assenza da parte del Fisco, pur mensilmente informato attraverso gli elenchi Intrastat, in relazione a ogni rilievo o censura sulla sua condotta commerciale e fiscale.
La Commissione tributaria provinciale concludeva dunque accogliendo tale richiesta, dato che “senza volersi riconoscere alcuna valenza di silenzio assenso all’assenza di ogni iniziativa da parte dell’Ufficio nei confronti della ricorrente fino al momento in cui .. vennero finalmente all’attenzione degli Uffici delle entrate le particolari operazioni commerciali di cui si tratta, deve tuttavia annotarsi che la irritualità di tali operazioni ben avrebbe potuto e dovuto essere valutata dall’Agenzia delle entrate già in via autonoma sulla base dei dati portati a sua conoscenza ogni mese attraverso i modelli INTRASTAT … e va riconosciuto … che la genericità delle disposizioni normative (e la sostanziale disattenzione dei competenti uffici) ha lasciato ampio spazio nella materia alla convivenza di diversi gradi di sensibilità fiscale da parte dei contribuenti italiani e comunitari …”.
 
Il perché dell’appello
Tali conclusioni, secondo l’ufficio, erano infondate, sia in fatto che in diritto. L’Amministrazione finanziaria aveva infatti eseguito tutti i necessari accertamenti.
E lo aveva fatto anche tramite i controlli scaturenti dall’analisi dei dati forniti dal Vies (Vat information exchange system) di I e II livello, da cui era stato possibile rilevare che il fornitore estero aveva presentato i modelli Intra-1, autoassoggettandosi al regime di non imponibilità.
 
Proprio sulla base di tali controlli era stato allora possibile risalire alla vicenda in esame.
Non sempre però tali controlli possono essere “tempestivi”, in quanto la normativa italiana, riconducibile al Dpr 633/1972, non prevede che la fattura debba essere necessariamente identica nei due esemplari, potendo ricorrere anche il caso del self-billing, per cui l’italiano, ricevuta la fattura senza alcun addebito d’imposta e senza alcuna dicitura, su ordine del cedente comunitario, può procedere ad apporvi un timbro recante l’attestazione del margine.
Anche per questo motivo, l’articolo 33, comma 11, della legge finanziaria 2005, ha previsto l’introduzione dell’articolo 60-bis nel Dpr 633/1972, il quale, al comma 3, prevede espressamente, in capo al cessionario, l’inversione dell’onere della prova.
 
Considerazioni
Con il suo ragionamento, dunque, la Ctp addossava, di fatto, all’ufficio le conseguenze della complessità del contrasto a tali tipi di frodi (quando invece proprio tale complessità comporta semmai un alleggerimento dello stesso onere e anzi una vera e propria inversione dello stesso a carico del contribuente inadempiente).

 
Conseguenza ancora più incomprensibile se unita al fatto che, poi, nel merito, la stessa Commissione aveva però respinto le doglianze del contribuente, affermando che egli aveva “… preferito adagiarsi nell’acritica accettazione della informale e generica dichiarazione di cui si è detto, pervicacemente insistendo nella tesi che nessun obbligo sussista in capo al cessionario nazionale di porre in essere una peculiare attività di ricerca/verifica sulla veridicità della detta dichiarazione e che un siffatto obbligo sotto forma di potere/dovere, appartiene invece soltanto al Fisco, che non può quindi trasferirlo a carico del contribuente, trasformandolo in una sorta di suo sostituto/delegato, sottoposto a maggiori imposte e sanzioni ove non acquisisca la necessaria certezza probatoria sulla veridicità della dichiarazione”.
 
Se d’altra parte, come anche in questo caso giustamente riconosciuto dalla stessa Commissione di primo grado, il contribuente si era comportato in totale spregio delle più elementari regole di “… prudenza, diligenza e perizia, non soltanto generica, ma anche specifica, tenuto conto di quanto, proprio sul punto hanno chiaramente ed incisivamente affermato le citate Circolari rese dall’Amministrazione Finanziaria nel 1998 e nel 2003” e se dunque la Commissione riconosceva la validità di tali circolari, le quali espressamente riconoscono che “l’errore che dipende da imprudenza, negligenza o imperizia non rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità” (e quindi anche delle sanzioni), non si comprendeva come poi, invece, la medesima Commissione avesse potuto decidere la disapplicazione delle sanzioni a favore del contribuente negligente, imprudente e inadempiente.
Imprudenza, negligenza e imperizia che, nel caso in questione, erano per così dire “aggravate” dal fatto che la prima cessionaria nazionale, poi cedente alla società oggetto di accertamento, i cui acquisti la ricorrente affermava di non aver potuto controllare, non avendo i poteri per accedere alla relativa contabilità, faceva perfino parte del suo stesso gruppo societario.
L’errore (se di errore si può parlare) appariva dunque ancora più anomalo.
 
In tali contesti, infatti, proprio l’interposizione di una società filtro (a maggior ragione se dello stesso gruppo societario), poi, per l’appunto, utilizzata come (tentativo di) giustificazione della non applicazione dell’imposta (sotto il profilo della buona fede e sotto quello della doppia imposizione), è strettamente funzionale al perpetrarsi della frode.
Pertanto, non poteva essere condivisibile la conclusione a cui lo stesso appellante perveniva (e che rappresentava, in sostanza, l’oggetto del giudizio), secondo cui, essendo lui in buona fede e non potendo, né volendo, svolgere attività di verifica in ordine alle attestazioni di applicabilità del suddetto regime rilasciategli dal cedente, nessuna responsabilità di tipo fiscale gli poteva essere addotta.
 
Il giudizio di secondo grado
Come poi evidenziato dalla Ctr della Toscana nella sentenza in esame, la specificazione in fattura che la transazione era stata effettuata con applicazione del “regime del margine” non esimeva l’acquirente da responsabilità, qualora, in base a elementi oggettivi, si potesse desumere che il cedente comunitario non poteva utilizzare il regime speciale in argomento.
 
I giudici di secondo grado, dopo aver evidenziato quali sono le condizioni richieste dalla norma per poter usufruire del regime del margine, sottolineano infatti che “considerato il principio generale secondo cui il contribuente che spontaneamente sceglie di avvalersi di particolari agevolazioni tributarie è tenuto anche a fornire prova di essere in possesso dei requisiti necessari allo scopo … non vi è dubbio che … debba essere la società appellante a provare la sussistenza per l’applicazione dell’IVA con il particolare regime di cui trattasi, essendo appunto una disciplina a lei favorevole e non all’ufficio, il quale correttamente ha proceduto all’emissione degli avvisi di accertamento qui contestato sulla base di consistenti elementi indiziari …”.
La Ctr, quindi, ribaltava anche la decisione della Commissione tributaria provinciale in ordine alle sanzioni, affermando che “deve essere censurata la decisione dei primi giudici di dichiarare non dovute le sanzioni amministrative. Ciò in quanto non è ravvisabile alcuna negligenza da parte dell’Ufficio, il quale ha adottato i dovuti controlli, in virtù dei quali è emersa la violazione oggetto di questa controversia, mentre non è da ritenere sufficiente presumere una formulazione non chiara della normativa quale esimente delle sanzioni amministrative, poiché nessun obbligo aveva il contribuente di far ricorso al regime IVA del margine e se ciò è avvenuto poteva e doveva provare l’esistenza dei presupposti all’uopo necessari …”.
 
 Fonte: Giovambattista Palumbo su www.fiscooggi.it

 

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