Impiegata part time gestisce milioni di euro da Madeira, inverosimile

L’agenzia delle Entrate ottiene un altro importante successo presso la Commissione tributaria regionale della Toscana, per più di 5 milioni di euro di imposte.
Con sentenza n. 88/18/08 del 7 novembre 2008, infatti, è stato respinto l’appello di un contribuente nell’ambito di un complesso contenzioso in tema di stabile organizzazione occulta in Italia di una società con sede dapprima a Gibilterra e poi a Madeira.

Già la Ctp, con la sentenza n. 159/14/2006, aveva espressamente affermato che “tutti gli avvenimenti e i documenti reperiti fanno riferimento, senza possibilità di equivoci, a fatti aziendali operati in Italia, per cui risulta poco credibile che una azienda, con siffatto volume d’affari, possa essere gestita con un’organizzazione così modesta …”.
Il contribuente tuttavia proponeva appello, continuando a sostenere l’illegittimità della pretesa dell’Amministrazione finanziaria.
L’ufficio di Firenze 2 aveva però ampiamente dimostrato l’esistenza in Italia di una stabile organizzazione occulta.

L’accertamento scaturiva dalle operazioni di verifica effettuate dal nucleo regionale polizia tributaria della Guardia di finanza di Firenze, che avevano fatto emergere l’esistenza di un articolato complesso di società, finalizzato a realizzare evasione di imposta ed elusione della normativa interna e internazionale sotto molteplici profili. Questo, anche grazie all’esame della documentazione contabile ed extracontabile acquisita nel corso di accessi eseguiti simultaneamente presso le sedi aziendali e presso le abitazioni di svariati soggetti, persone fisiche, che gestivano le operazioni contestate.
Il motivo esclusivo della delocalizzazione dei redditi in capo alla società di Madeira (già Gibilterra) era dunque quello di sottrarre a tassazione materia imponibile, da investire poi in Italia e sui mercati esteri in strumenti finanziari a breve termine.

Nel caso in esame, la prova era pertanto una prova indiretta, basata su un procedimento d’ordine logico che, partendo da uno o più fatti noti o certi, permetteva di desumere l’esistenza del fatto ignoto e cioè:
svolgimento effettivo in Italia dell’attività commerciale della società con sede a Madeira (già Gibilterra) (conclusione dei contratti, gestione degli affari, eccetera)
inconsistenza e inadeguatezza della società di Madeira (già Gibilterra) per lo svolgimento dell’attività di commercializzazione dei prodotti
sfruttamento evidente delle lacune di collegamento tra i diversi sistemi tributari esteri.
Un tale rapporto di consequenzialità, che deve intercorrere tra fatto noto e fatto ignoto, andava inteso infatti, non nel senso di un rapporto di causa-effetto, ma come rapporto d’ordine logico: a indicare cioè che l’esistenza di un fatto comporta presumibilmente anche l’esistenza dell’altro e che rientra nell’ambito delle conseguenze possibili, con un grado di probabilità tale da indurre nel ragionevole convincimento che il fatto ignoto si sia effettivamente verificato.

Ebbene, come riconosciuto anche dalla Ctr, era certamente più verosimile che la commercializzazione dei prodotti venisse svolta in Italia da una stabile organizzazione (occulta) della società estera, con sede in un paradiso fiscale, piuttosto che l’alternativa offerta dalla ricorrente, in base alla quale la commercializzazione internazionale, per milioni di euro di volume d’affari, avveniva effettivamente a opera di una società, con sede in Madeira (già Gibilterra), “gestita” per mezzo di una sola impiegata part time.
La società invece, come dimostrato dall’ufficio, risultava svolgere in realtà la propria attività di impresa in Italia per mezzo di una stabile organizzazione e in base al principio della forza di attrazione globale, tutti i redditi conseguiti dall’impresa non residente nel territorio dello Stato andavano quindi ricondotti alla stabile organizzazione, che così individuata rivelava un livello di penetrazione economica paragonabile a quella che caratterizza l’attività di impresa svolta dai soggetti residenti (articolo 7, paragrafo 1, del modello Ocse).

Il requisito della stabile organizzazione sussiste infatti ogni qual volta l’ente straniero svolge abitualmente la sua attività nel territorio nazionale, avvalendosi di una struttura organizzativa materiale e/o personale, qualunque ne sia la dimensione, purché non abbia carattere precario o temporaneo e costituisca quindi un centro di imputazione di rapporti e situazioni giuridiche riferibili al soggetto straniero. A nulla rileva che, presso la struttura situata in Italia, esista o meno una persona fisica agente per conto della società straniera (le modifiche apportate allo stesso modello Ocse in tema di e-commerce configurano una stabile organizzazione anche in presenza di un semplice server).

L’illegittimità di tale contesto era stata del resto pienamente confermata anche dalla Ctp di Firenze nei confronti della controllante della holding olandese a sua volta controllante della società con sede in Gibilterra (poi Madeira), che aveva affermato: “le attività di conduzione e manageriali svolte dalla struttura ubicata in Italia …comportano la qualifica di stabile organizzazione” e che “la documentazione disponibile” (la stessa peraltro poi presente nei successivi contenziosi a carico delle altre società del gruppo) “consente di individuare una stabile organizzazione in Italia per essere la sede di Gibilterra di fatto inesistente, in quanto inidonea per carenza di mezzi umani e tecnici e risultando comunque ampiamente provato che gli atti operativi a qualsivoglia, e non solo di controllo gestionale, avvenivano in Italia” (sentenza n. 99/2004).

In sostanza, per individuare la sede di una società, occorre guardare non all’apparenza formale, ma a una situazione di fatto, quale appunto il luogo ove il soggetto titolare del potere esecutivo esercita le sue attività e le sue funzioni, con carattere di stabilità ed effettività.
C’è dunque stabile organizzazione laddove le situazioni di fatto “denotino il fine degli stessi soggetti di esercitare nello Stato attività imprenditoriale e siano caratterizzate, oltre che dal collegamento non occasionale con luoghi del territorio nazionale e persone qui operanti, dall’effettivo impiego di beni ed attività lavorative” (cfr Cassazione, sentenze nn. 9580/90, 3367 e 3368 del 2002).
Nel caso in esame, il contribuente riteneva invece irrilevante il fatto che il controllo sulla regolare esecuzione dei contratti avvenisse in Italia.
Ma una tale difesa andava a scontrarsi con quanto chiaramente affermato dalla Suprema corte, laddove appunto i giudici stabiliscono che “l’attività di controllo sulla regolare esecuzione di un contratto non può certamente essere considerata di natura ausiliaria, essendo strettamente funzionale alla produzione del reddito” (sentenza n. 3368/2002).
Il reddito tassabile in capo alla società non residente era pertanto quello derivante dall’attività imprenditoriale esercitata mediante la stabile organizzazione in Italia, così come correttamente rilevato dalla Guardia di finanza sulla base della documentazione contabile ed extracontabile rinvenuta e dall’ufficio, mediante una ricostruzione induttiva del reddito pienamente giustificata, data l’omessa presentazione della dichiarazione da parte della stessa stabile organizzazione.
In tale ricostruzio
ne, peraltro, era stato tenuto conto sia dei ricavi sia dei costi attinenti l’attività commerciale effettuata in Italia.

La legittimità dell’operato dell’ufficio è stata pienamente accolta dalla Ctr, che ha infatti affermato: “per aversi stabile organizzazione deve versarsi, anche in fatto, in presenza di continuità gestionale, cioè di una pluralità di atti non occasionale, tale da determinare la percettibilità da parte dei terzi della centralità della gestione e della elaborazione di tutto quanto attiene al dispiegamento dell’attività sociale”.
In tale contesto, dunque, i dati documentali emergenti dalla verifica fiscale non lasciavano “dubbio alcuno per ingenerare il necessario convincimento sul presupposto di continuità, ovvero di abitualità e di strumentalità della organizzazione imprenditoriale, a livello personale e materiale”.

La Commissione tributaria regionale entrava poi ancor più nel merito della vicenda, individuando la sede della stabile organizzazione “materiale” e rilevando come risultasse chiaramente dalla documentazione allegata al processo che la commercializzazione dei prodotti avveniva presso locali siti in Scandicci (Firenze). Qui confluiva anche la commercializzazione dei prodotti di altre società, facenti capo ai soci e al rappresentante legale della società appellante, fatto che dimostrava la sussitenza anche della stabile organizzazione “personale”. In pratica, gli stessi soci e comunque lo stesso rappresentante legale della società “inequivocabilmente, ivi approntano (dunque personalmente e materialmente) la loro attività di continua ed abituale gestione e di commercializzazione dei prodotti di tutte le società del gruppo”.

La Ctr valutava poi l’aspetto probatorio della vicenda, affermando a tal proposito che “per altro verso e conclusivamente non risulta in atti (od esaustivamente non risulta) che parte contribuente sia stata in grado di efficacemente contrastare sotto il profilo probatorio l’assetto documentale, avendo precipuamente argomentato su (pur infondate) questioni pregiudiziali” (tutte superate dall’ufficio) “e non di merito a confutazione della documentazione (cercando addirittura e significativamente, di inficiarne sotto il profilo della pretesa illegittimità, la acquisizione) e tanto processualmente non può che condurre alla reiezione dell’interposto gravame”.

Quindi, i guidici d’appello, non solo hanno ritenuto che il contribuente non abbia adempiuto al suo specifico onere della prova, ma hanno anche preso atto del suo comportamento processuale, valutando tale omessa prova in “combinato disposto” con il tentativo di contestare la legittima acquisizione dei documenti probatori che dimostravano la validità della pretesa dell’ufficio. Tentativo infruttuoso, che rappresentava un’implicita ammissione della impossibilità da parte del contribuente a fornire alcuna valida documentazione contraria, che potesse inficiare le conclusioni dell’Amministrazione finanziaria.
La sentenza contribuisce da un lato a delineare i contorni giuridici e probatori relativi al contrasto avverso l’evasione perpetrata per mezzo di stabili organizzazioni occulte, dall’altro rappresenta anche un chiaro monito contro i contenziosi meramente dilatori, basati spesso su semplici eccezioni pregiudiziali, frutto di interpretazioni giuridiche al limite della sostenibilità.

Giovambattista Palumbo – Nuovo Fisco Oggi

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